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Vecchio 18-06-2006, 23:25
Tohru Honda Tohru Honda non è connesso
Angelo
 
Data registrazione: Jun 2006
Messaggi: 4
Predefinito Never Ending Banquet

Questa è la prima fan fiction che ho scritto, su Furuba (e non l'ho ancora terminata; attualmente, è composta da un prologo e due capitoli piuttosto lunghi). Il progetto è abbastanza ampio, e prevede due atti principali. Il primo prende piede sette anni dopo l'ipotetica conclusione della storia (in Giappone, mancano tre capitoli alla conclusione...per cui, pur non conoscendo il finale vero e proprio, un po' per intuito e un bel po' per fantasia, ho ricostruito qualcosa) e vede protagonisti i personaggi principali di Furuba, ormai cresciuti, e, in parte, i loro figli (chi ne ha, ovviamente ^^"); poichè era nelle mie intenzioni ricostruire una rete di misteri simile a quella presente nell'opera originale, ho messo su una storyline che richiama nuovi inghippi...ma non anticipo nulla, per il momento.
Di seguito, potrete leggere il prologo, narrato dal punto di vista del figlio di Kyo e Tohru.
Buona lettura ^^, spero vi piaccia ç____ç...



PROLOGO


“C’è stato un periodo, nella mia infanzia, in cui credevo di essere un bambino normale.
L’idea di essere “diverso” non mi aveva mai sfiorato, neppure per un secondo.
Non pensavo che il trasformarsi in topo ogni volta che la mia mamma mi abbracciava, significasse “essere strani”.
Non credevo che il sentirsi in qualche modo legati a quella persona dai capelli neri e lo sguardo triste, significasse “non essere normali”.

No, non l’avevo mai pensato. Mai.

Dopo un po’, però, cominciai a chiedermi perché i miei amici non si trasformavano, quando le loro madri li prendevano in braccio.
Perché papà mi impediva di andare a giocare con le mie compagnette dell’asilo.
Perché i miei amici ridacchiavano quando chiedevo loro in che animale si trasformassero.

Conoscevo solo altri tre bambini che si trasformavano come me.
Conoscevo solo altri tre bambini come me.
Anche loro credevano di essere normali.
Anche loro si ponevamo le mie stesse domande.
Ma nessuno di noi quattro osava chiedere qualcosa ai propri genitori.
Forse non volevamo conoscere la risposta.
Così, ubbidivamo e non ci avvicinavamo alle bambine.
Ma una di noi quattro era una bimba.
E lei poteva avvicinarsi alle sue compagne.
Ma non ai bambini.
E noi cercavamo di non chiederci perché.

Finchè, un giorno, un compagno mi chiese perché la mia mamma non mi abbracciava mai.
Se non mi abbracciava, allora non mi voleva bene.

Non ricordo bene ciò che provai in quel momento.
Però ricordo di aver scaraventato a terra quel bambino, con un pugno.
Forse perché mi ero ricordato di aver visto tutti i miei amici in braccio alle loro madri, almeno una volta.
Mentre la mia mamma non mi aveva mai abbracciato davanti agli altri.
Si vergognava di me? E perché?
O davvero………davvero non mi voleva bene?
La mia mamma non mi voleva bene?
Perché non ero normale?
…………………per la prima volta, lo pensai.
Non ero normale.
Un bambino che si trasformava in topo non era normale.

Quando dissi questo a mio padre, lui rimase in silenzio.
Senza guardarmi.
Perché avevo capito quello che lui cercava di nascondermi.
Che suo figlio era “strano”.
Ma in quel momento non m’importava.
Che importava se ero diverso?
Ma la mamma…………
Scoppiai a piangere.
E chiesi a mio padre se la mia mamma mi voleva bene.

La mia mamma voleva bene a un bambino strano?

Lui si chinò alla mia altezza, per fissarmi dritto negli occhi.
Non avevo mai visto, né vidi mai più, uno sguardo che racchiudeva tanto amore e tanta rabbia nello stesso tempo, negli occhi di mio padre.
Quello che mi disse, però, non mi convinse del tutto.
Perché era quello che avrebbe detto qualunque padre al proprio figlio.
Anche se non fosse stato vero.
Quando fece per andarsene, io lo trattenni.
Avevo un’ultima domanda.
Non importante quanto la prima. Ma credevo di doverlo sapere.
Così, chiesi a mio padre chi ero.

E lui mi disse che ero “maledetto”.

Non capii bene cosa volesse dire.
Non avevo mai sentito pronunciare a nessuno quella parola.
Eppure, ebbi paura.
Era una parola paurosa.
Era una parola che esisteva dentro di me.
Avrei voluto strapparla via, ma non potevo.
Se l’avessi strappata via dal mio corpo, sarei morto.
Perché io ero quella parola.
Ebbi paura di me stesso.
Quando avevo paura, andavo a rifugiarmi tra le braccia della mamma.
Ma quella volta non potevo abbracciarla.
Non sapevo perché, ma credevo che se mi fossi trasformato, quell’orribile parola sarebbe uscita allo scoperto e si sarebbe resa leggibile a tutti.
Tuttavia, andai ugualmente dalla mamma. Mi sedetti accanto a lei, nel divano.
Era così bella, la mamma.
Come la principessa di una di quelle favole che lei stessa mi raccontava per farmi addormentare.
E io aspettavo sempre che lei finisse la storia, prima di addormentarmi.
Perché volevo ascoltare la sua voce fino alla fine della fiaba.
Lei mi guardò sorridendo, distogliendo lo sguardo dal ricamo con cui era alle prese; osservandomi, sembrò accorgersi che non stavo bene, perché assunse un’espressione preoccupata.
Non le diedi tempo di chiedermi nulla. Ma le posi la stessa domanda che avevo fatto a papà; la seconda, naturalmente. Sapevo già cos’avrebbe risposto alla prima.
Lei mi guardò.
Cosa sono io, mamma?
Dimmelo, ti prego.
Non rimase in silenzio. Né si adombrò in volto.
Sorrise.

E mi disse che ero un bambino speciale.

Guardando la sua espressione mentre pronunciava quella frase, capii che, se non avevo avuto fiducia nelle parole di mio padre, avrei dovuto averla almeno nello sguardo che mi aveva rivolto.
Perché mia madre mi voleva bene. Di sicuro.
E pensai che, certamente, ero maledetto perché avevo osato dubitare dell’amore della mamma.

Tuttavia, decisi di non pensare più a quella parola paurosa.
“Maledetto”. “Speciale”.
Erano due parole che mi si addicevano entrambe.
Eppure, a quel tempo, preferii credere all’amore della mamma.
Preferii credere di essere speciale.
Fra due parole sconosciute, scelsi quella. Forse perché era stata accompagnata dal sorriso di mia madre. Era per questo che suonava così bella, ne sono certo.
Forse sbagliai. Forse, se avessi scelto di dare ascolto a mio padre, sarei più consapevole di me.
Perché “maledetto” è probabilmente il termine più vero, quello che più mi si addice.
Ma, nel momento in cui scoprii di esserse “diverso”, volli credere alla mamma.
Lei che pure era diversa dagli altri, ma in modo meraviglioso.

Man mano che il tempo passava, mi accorsi che anche i miei amici avevano capito quello che io avevo scoperto prima di tutti.
E, nello stesso tempo, capii che loro avevano scelto di essere “maledetti”.
Forse è un bene. Forse saranno più preparati di me, quando dovremo affrontare tutto questo.
Eppure, non riesco a pentirmi di aver creduto alla mamma, quella volta.
Perché, ogni volta che ci ripenso, mi ritorna in mente il suo sorriso meraviglioso.
Così, da quando capii di non essere come gli altri, sono sempre stato convinto di essere speciale.”
__________________
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